In rottura con la tradizionale discrezione che caratterizza le relazioni tra i paesi “fratelli” del Golfo, l’Oman getta un sasso nello stagno opponendosi pubblicamente al progetto saudita di rafforzare i legami tra petro-monarchie in funzione anti-Iran.

 Diversamente dall’Arabia Saudita, ferma nel suo antagonismo con Teheran, l’Oman intrattiene da sempre una politica di buon vicinato con l’Iran.

Mentre Riyad vede nella Persia sciita un pericoloso competitor politico-religioso per l’egemonia nel Golfo, Muscat la considera come un partner naturale e strategico per la stabilità regionale, con il quale è necessario scendere a patti. 

Dall’inizio del dicembre scorso, il sultanato dell’Oman si è infatti fermamente opposto alla proposta saudita di trasformare il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) in Unione, restando fedele alla sua tradizionale posizione regionale, che lo differenzia dalle altre monarchie della penisola araba, sia per il suo posizionamento geografico che per ragioni storiche. 

 

L’Oman che guarda all’Oceano indiano 

Diversamente da tutte le altre monarchie che fanno parte del CCG, le cui origini sono legate all’evoluzione delle tribù del Nejd (provincia centrale dell’Arabia), l’Oman è stato nella storia maggiormente influenzato dall’Oceano indiano che non dalle regioni interne della penisola.

Il sultanato, in effetti, ha un passato radicato sulle rive indiane e africane piuttosto che vicino al mondo persiano. Zanzibar, l’Unione delle Comore, le coste est-africane, il Belucistan, un tempo facevano parte del suo impero coloniale. 

L’Oman è una monarchia ibadita (1) con una popolazione nazionale che comprende minoranze religiose sunnite e sciite che convivono abbastanza bene, ed etniche – come i baluchi o le popolazioni originarie delle isole dell’Oceano indiano. Un insieme dominato dagli arabi ibaditi, in cui nessuna minoranza è esclusa dalla vita pubblica e in cui tutti partecipano alle istituzioni dello Stato. 

Non ci sono dubbi sull’obiettivo che ha sempre avuto Riyad: riunire sotto il suo controllo paesi che la casa Saud ha sempre considerato vassalli. Manca poco perché le carte geografiche stampate in Arabia Saudita “dimentichino” di segnalare le frontiere con i diversi Emirati, come se fossero provincie saudite. 

Se il CCG, nella sua configurazione attuale, lascia a ciascun paese – Qatar compreso – la sua libertà d’azione, è soprattutto grazie alle resistenze interne poste all’egemonia di Riyad.

Il progetto di Unione degli Stati Arabi del Golfo, se vedrà la luce, limiterà infatti la libertà d’azione dei suoi membri attraverso la costruzione di politiche comuni nel campo degli affari esteri e della difesa – che saranno dominati dall’Arabia Saudita – e attraverso un’integrazione economica rinforzata.

La volontà saudita di serrare i ranghi non è condivisa allo stesso livello da tutti i membri del CCG, e soprattutto dal sultanato dell’Oman. 

 

Il “buon vicinato” con l’Iran 

Del progetto di creazione dell’Unione, l’Oman critica prima di tutto la volontà di Riyad di renderlo una sorta di ‘coalizione araba’ contro l’Iran.

Proposto una prima volta nel 2011 da re Abdallah per proteggersi dalle sollevazioni delle Primavere arabe attraverso un rinsaldamento dei legami nel ‘club’ delle monarchie, il progetto è stato nuovamente messo all’ordine del giorno dai sauditi in occasione del vertice del Consiglio del 10 e 11 dicembre 2013, in Kuwait. 

Una reazione alla distensione dei rapporti tra Washington e la Repubblica islamica, avviata con l’accordo provvisorio tra i “5+1” e l’Iran sulla questione del nucleare, e al tentativo di risolvere la crisi siriana a tutto danno di Riyad.

Aderire a questo progetto, per l’Oman, significherebbe schierarsi a fianco dei sauditi contro Teheran, rompendo con quella che è stata da sempre la sua politica di buon vicinato con Teheran, con cui condivide il controllo del commercio su entrambi i lati dello Stretto di Ormuz. 

Muscat non ha mai seguito la politica di Riyad o di Abu Dhabi nei confronti di Teheran, se non in  un caso: all’indomani del rovesciamento dello shah.

Dopo la sua salita al potere, nel 1970, l’Iran imperiale (insieme al Regno Unito) aveva aiutato con le sue armate il sultano Qabus bin Sa’id al Sa’id a sedare una rivolta nella provincia di Dhofar (2), sostenuto dallo Yemen del Sud alleato di Mosca. La rivoluzione islamica e la guerra tra Baghdad e Teheran che ne seguirono provocarono all’epoca i timori di Muscat. 

Nei lavori preparatori per la creazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, nel 1981, per far fronte all’accumularsi di minacce contro la stabilità regionale (la rivoluzione iraniana, seguita alla guerra Iraq-Iran), l’Oman fu ardente promotore di un sistema comune di sicurezza, proponendo la creazione di un esercito congiunto con il sostegno di Stati Uniti e Gran Bretagna, a cui offriva in cambio l’accesso alle sue basi militari.

Un’idea su cui si scontrò con il Kuwait, che per la sua delicata posizione geografica non intendeva provocare ne’ l’Iraq ne’ l’Iran. La proposta rimase lettera morta. 

Il sultano Qabus fu comunque abbastanza veloce a tornare sulla sua posizione. Nell’aprile del 1985,  in un’intervista al settimanale egiziano al-Mousawar, dichiarò: “Sinceramente sostengo che qui a Muscat non crediamo che sia nell’interesse della sicurezza nel Golfo che l’Iran percepisca da parte nostra l’intenzione di stabilire un patto militare arabo che gli sarebbe sempre ostile, o che noi si sia sul punto di costituire una forza comune il cui scopo sia quello di combattere l’Iran. Non ci sono alternative ad una coesistenza pacifica tra arabi e persiani, ne’ ad un accordo nella regione”. 

Quasi 30 anni dopo, è ancora in nome di questo principio che l’Oman rifiuta il progetto saudita di Unione degli Stati Arabi del Golfo.

E’ ancora in suo nome che nel 2013 si è proposto come intermediario per la ripresa delle relazioni dirette tra Washington e Teheran, e per la preparazione dell’accordo provvisorio sulla questione del nucleare. 

 

Riserve delle altre monarchie del Golfo 

Allinearsi oggi con Riyad contro l’Iran significherebbe inoltre rinforzare la frattura confessionale tra sunniti e sciiti che tiene vivo l’antagonismo tra Arabia Saudita e Iran, con le conseguenze che abbiamo osservato in Iraq e in Siria, in Libano e in Yemen fino al Bahrein.

Il sultanato teme gli effetti che questo avrebbe tra le diverse comunità musulmane dell’Oman. Ci tiene, inoltre, a restare in secondo piano: i problemi che ha vissuto il paese nel 2011 nel contesto delle Primavere arabe sono stati creati da rivendicazioni economiche (legate in gran parte alla disoccupazione) e di governo, non a questioni di settarismo politico-religioso, come fu nel caso del Bahrein, o della provincia saudita di Hassa. 

Rompere con la sua politica di buoni rapporti con Riyad, gli Stati Uniti e l’Iran metterebbe il sultanato dell’Oman in prima linea contro Teheran, rischiando di provocare incidenti sullo Stretto di Ormuz.

Questo rischierebbe inoltre di alterare lo sviluppo degli scambi economici importanti che intrattiene con l’Iran. E su questo fronte Muscat trova l’accordo della maggior parte degli altri Emirati del Golfo che, ad eccezione del Bahrein, non si stanno affannando per concretizzare il progetto di Unione che propone l’Arabia Saudita, e di cui temono i possibili effetti sulla loro indipendenza. 

Condividono inoltre la visione del sultanato dell’Oman – per le sue conseguenze positive in termini di stabilità e sviluppo economico – per la reintegrazione dell’Iran nel concerto regionale, cosa che presto o tardi accadrà.

La dichiarazione  pubblica del ministro degli Affari Esteri dell’Oman il 7 dicembre, rivolta al vertice del CCG, contro il progetto saudita di Unione che da allora è stato congelato, l’ha chiarito bene. 

La sua ambivalente “amicizia” per la casa Saud è dettata in prima battuta dalla sua vulnerabilità e dalla necessità di una strategia per contenere la frattura sciita/sunnita, esacerbata dall’antagonismo tra Riyad e Teheran, molto più che dal desiderio di condividere un destino politico comune tra monarchie arabe sunnite, definito in opposizione alla Repubblica islamica sciita. 

 

(1) Corrente dell’Islam che pone la sua origine prima dello scisma tra sunniti e sciiti. 

(2) La ribellione partì nel 1962 con il sostegno dell’Arabia Saudita, e si sviluppò a partire dal 1967 con il sostegno dello Yemen del Sud, divenuto alleato di Mosca dopo la conquista dell’indipendenza dal mandato britannico. 

 

*La traduzione dal francese è a cura di Cecilia Dalla Negra. La versione originale dell’articolo, pubblicato su l’Orient XXI, è disponibile qui.

 

 

January 28, 2014di: Marc Cher-Leparrain per Orient XXI*Arabia SauditaBahrain,Emirati Arabi UnitiIran,Kuwait,Oman,Qatar,Yemen,Articoli Correlati: 

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